di Pleiadi Art Productions produzione Campsirago Residenza | in collaborazione con Festival Internazionale di Malta | ideazione Mariasofia Alleva, Michele Losi, Caterina Poggesi | con Mariasofia Alleva, Eva Cambiale, Carolina Leporatti, Carlo Orlando, Giovanni Serratore cast in via di definizione | viola, violoncello e voce Cristina Abati | regia Michele Losi | dramaturg Riccardo Calabrò | drammaturgia Peter Asmussen, Michele Panella, | scenografia Marialuisa Bafunno | costumi Stefania Coretti | cura del movimento scenico Caterina Poggesi | video Alberto Sansone | luci Michele Losi | sound design Diego Dioguardi
LE ORIGINI DELLO SPETTACOLO
La scelta di avvicinarsi a un grande classico come Moby Dick è la sfida di affrontare il mare alto dell’esistenza. Seguendo il capitano Achab nel labirinto del suo viaggio, decidiamo di immergerci e di condurre lo spett-attore, tutt’altro che passivo, sui fondali più oscuri e bestiali dell’animo umano.
Le tensioni esistenziali presenti in Moby Dick, le complesse linee narrative indicate nelle ragioni stesse dei suoi personaggi, la forza dirompente della natura, hanno catturato la nostra attenzione e hanno aperto in noi una sequenza di domande di cui il testo stesso è fitto. Abbiamo chiesto ai drammaturghi Peter Asmussen (DK), Michele Panella (I) e Riccardo Calabrò (I) una riscrittura originale del testo, incentrata sulle tensioni esistenziali dei personaggi, per comporre un Moby Dick contemporaneo nel quale l’alternanza tra profondità individuale ed azione collettiva definisce il ritmo e la forma dello spettacolo.
I personaggi e le loro elucubrazioni, vero cuore narrativo dell’opera, e le interminabili catalogazioni e attese che rendono a tratti Moby Dick più simile all’Enciclopedia Britannica che a un romanzo d’avventura, sono i due poli a cui faremo riferimento costante nella messa in scena costruita su una dinamica di opposti: bianco-nero, luce-buio, allucinatorio-razionale, quaccherismo-spirito naturale, finanza-ecologia.
Il progetto Moby Dick si sviluppa declinando l’opera in diversi formati con varie modalità di fruizione, dalla lettura integrale dell’opera alla mise en espace in teatro o su un veliero.
NOTE DI REGIA
Da un punto di vista narrativo Achab, figura dagli evidenti tratti shakespeariani, analoga sia a re Lear che a Machbet è, come Machbet, un eroe negativo. La caccia a Moby Dick viola il disegno divino. Come il Prometeo della letteratura antica e romantica il capitano si oppone al dio celeste.
Nella performance è protagonista l’innata aspirazione dell’uomo al superamento dei propri limiti e al raggiungimento di una palpabile, reale e assoluta realizzazione, che spinge i protagonisti del romanzo a sfidare la vita stessa per gustare, anche solo per un istante, una piena soddisfazione. Quale sia poi l’essenza della balena bianca, visceralmente agognata dall’eterogenea flotta del veliero Pequod, lo scopriremo durante il viaggio-spettacolo.
Moby Dick, moderno leviatano, traccia la scia verso la perdizione umana, mostra gli esiti ultimi di quello cui può condurre la perdita di controllo e di razionalità cui la caccia spasmodica può portare, creando dietro di sé un vuoto da cui è impossibile far affiorare alcuna salvezza. Ciò nonostante è la ricerca stessa che spinge l’uomo a superarsi, ad erigersi sempre più in alto, sempre più vicino a Dio, ad un Dio di cui si fa fatica a definire i contorni.
Come per Ismaele, nel suo lungo monologo iniziale:
“In mare – Perché gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro? Certamente tutto ciò non è senza significato. E ancora più profonda di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita. E questa è la chiave di tutto.”
E come risponde Achab al suo primo ufficiale Starbuck, quando questi osa mettere in questione la sensatezza della vendetta del Capitano nel suo folle inseguimento di Moby Dick:
“… Tutti gli oggetti visibili, amico, sono soltanto maschere di cartapesta. Ma in ciascun evento, nell’atto vivo, nel fatto accertato, lì, qualcosa di sconosciuto ma tuttavia ragionevole sporge la sagoma delle sue fattezze dalla maschera incosciente. Se l’uomo vuole colpire, colpisca attraverso la maschera! Come farebbe a evadere un carcerato, se non avventurandosi fuori attraverso il muro? Per me la balena bianca è quel muro, sospintomi vicino. Penso a volte che non ci sia niente al di là. Ma per me basta così. Mi dà da fare; mi riempie tutto; scorgo in essa una forza oltraggiosa, cui una malizia imperscrutabile dà nerbo. Quella cosa imperscrutabile è l’oggetto primo del mio odio; la balena bianca può esserne l’agente, la balena bianca può esserne il mandante: io quell’odio lo sfogherò su di lei. Non parlarmi d’empietà, amico: colpirei il sole se mi offendesse. Perché se il sole fosse capace di questo, io sarei capace di quello; c’è sempre una certa lealtà nel gioco, poiché la rivalità presiede a tutte le cose create. Ma nemmeno quel gioco leale, amico mio, può farla da padrona con me. Chi c’è sopra di me? La verità non ha confini…”